sabato 29 marzo 2008

La bestia umana

Rilancio questa iniziativa dal blog “Solleviamoci” e vi prego di fare altrettanto.


Nell’anno 2007 Guillermo Vargas Habacuc, un finto “artista” (mi ripugna usare questo nome anche legato all’aggettivo “finto”), prese un cane di strada, lo legò con una corda corta ad un muro di una galleria d’arte e lo lasciò morire lentamente di fame e di sete.

Durante parecchi giorni, l’autore di questa orribile crudeltà e i visitatori di questa galleria d’arte erano spettatori impassibili dell’agonia del povero animale (guardate le ultime due foto!), fino a quando finalmente morì di fame e di sete, sicuramente dopo essere passato per un doloroso, assurdo ed incomprensibile calvario.
La prestigiosa Biennale Centroamericana di Arte decise, incomprensibilmente, che la bestialità che aveva appena commesso questo individuo era "arte", ed in questo modo tanto incomprensibile Guillermo Vargas Habacuc è stato invitato a ripetere la sua crudele azione alla futura Biennale del 2008.

FERMIAMOLI!!!
Firmiamo questa 
petizione


P.S.
Al "Direttore" della Biennale consiglio di mettere al posto del cane il presunto "artista".
Gli assicuro che l'effetto sarà ancora più eclatante!



Intanto in Canada la strage è iniziata: 275.000 cuccioli di foca saranno sterminati con armi da fuoco e bastoni. Nonostante la minaccia di sanzioni commerciali da parte di Bruxelles, Ottawa ha dato via alla grande mattanza dei cuccioli foca, un massacro terribile che si ripete ogni anno per prelevare dai corpi morti dei piccoli la pelle e il grasso.

Il Ministro canadese della Pesca ha addirittura ironizzato criticando le argomentazioni degli animalisti, che secondo il politico sarebbero «fondate in gran parte su rapporti discutibili e su un discorso basato sulle emozioni».

Al di là delle autorità europee solo un gruppo di Paesi molto civilizzati, come Belgio, Olanda e Svezia, ha già adottato misure restrittive contro l'importazione di tutti i prodotti derivanti dalla caccia alla foca.
SVEGLIATI ITALIA!

venerdì 28 marzo 2008

Consiglio comunale del 26 marzo 2008

Spettatori presenti: all’inizio tre che però se ne sono andati prima della fine della seduta.

Le comunicazioni del Sindaco hanno riguardato la denominazione del gruppo consiliare “Margherita per l’Ulivo” che è stata cambiata in “Partito democratico”, e la prossima visita pastorale del Vescovo in Agugliano per la quale sarà convocato un Consiglio comunale straordinario.
Il secondo punto è stata l’approvazione dei verbali della seduta del 12 febbraio su cui non ci sono state contestazioni.
Sono poi seguiti due punti riguardanti l’approvazione definitiva dell’individuazione di un sub-comparto all’interno dei comparti 6 e 3 del piano particolareggiato del centro storico, entrambi già adottati nel Consiglio comunale del 19 novembre 2007 sui quali ci siamo espressi favorevolmente.
Il sesto punto ha trattato l’esame delle 34 osservazioni alla variante parziale al P.R.G. comunale, con le quali i cittadini hanno richiesto modifiche particolari alla proposta presentata dall’Amministrazione comunale.
Un’unica osservazione ha riguardato riflessioni generali all’impianto della variante ed è stata totalmente respinta (ma che strano!).
Abbiamo espresso il nostro parere sulle osservazioni più consistenti, decidendo di astenerci in quelle molto particolari relative ad interessi specifici dei singoli.
Abbiamo invece votato contrario all’approvazione della variante nel suo insieme non ritenendola valida alle necessità del paese.
Il settimo ed ultimo punto era relativo ad una convenzione tra i Comuni di Agugliano, Camerata Picena, Polverigi, Offagna, Santa Maria Nuova e l’Unione costituita tra gli stessi Comuni, per l’organizzazione e la gestione di attività varie di protezione civile sulla quale ci siamo espressi favorevolmente.

Come sempre siamo a disposizione per chi volesse avere maggiori informazioni.

mercoledì 26 marzo 2008

Iraq: 5 anni di carneficina e disperazione


Quota 4.000 morti è arrivata pochi giorni dopo il quinto anniversario dell'inizio della guerra.
La gran parte delle vittime - 3.863 - è morta dopo il famoso annuncio del presidente Bush del maggio 2003: “Le operazioni di combattimento primarie sono terminate”.
Ma se i dati sui caduti Usa sono seguiti con attenzione dalla stampa, le cifre sui morti civili iracheni sono incertissime. Sicuramente sono almeno 100 mila, più di venti volte quelle dei soldati a stelle e strisce. Ma c'è anche chi parla di un milione.

Questo il rapporto “Carneficina e disperazione” pubblicato da Amnesty International sulla situazione irachena (di rainews24 su Agenzie del 20/03/2008).

"Cinque anni dopo l’intervento militare guidato dagli Usa che spodestò Saddam Hussein, l’Iraq rimane uno dei paesi più pericolosi al mondo dal punto di vista dei diritti umani.
Secondo l’organizzazione per i diritti umani, gli attacchi e gli omicidi settari da parte dei gruppi armati, le torture e i maltrattamenti da parte delle forze governative e la continua detenzione di migliaia di persone sospette (molte delle quali da lungo tempo, senza accusa ne processo) da parte delle forze statunitensi e irachene hanno avuto un impatto devastante, costringendo oltre quattro milioni di iracheni a lasciare le proprie case.
Oggi due iracheni su tre non hanno ancora accesso all’acqua potabile e almeno uno su tre (otto milioni di persone) sopravvive grazie agli aiuti d’emergenza.
“L’amministrazione di Saddam Hussein fu proverbiale per le violazioni dei diritti umani” – ha affermato Malcolm Smart, direttore del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International – “ma la sua destituzione non ha portato alcun sollievo alla popolazione irachena”.
Migliaia di persone sono state uccise o gravemente ferite e comunità che in precedenza vivevano in uno stato di relativa quiete sono state trascinate in aperto conflitto La popolazione civile ha pagato il prezzo più alto. Per molte donne, che ora sono minacciate dai militanti religiosi, le condizioni sono peggiori rispetto ai tempi di Saddam Hussein.
Secondo il rapporto di Amnesty International, anche nella relativamente calma regione settentrionale curda, i passi avanti economici non sono stati accompagnati da un maggiore rispetto dei diritti umani.
“Continuano a giungere segnalazioni di arresti arbitrari, detenzioni e torture anche dalle province curde” – ha sottolineato Smart – “e il dissenso politico è scarsamente tollerato. Oppositori politici sono stati imprigionati senza processo mentre i cosiddetti delitti d’onore, in cui le donne sono assassinate dai propri familiari, restano un problema profondamente radicato che le autorità criticano ma non affrontano in maniera adeguata”.
Nessuno e’ in grado di stabilire esattamente quante persone siano state uccise in Iraq a partire dall’invasione diretta dagli Usa del marzo 2003.
Secondo la ricerca più estesa, condotta congiuntamente dall’Organizzazione mondiale della sanità e dal governo iracheno e pubblicata nel gennaio di quest’anno, dal marzo 2003 al giugno 2006 sono state uccise più di 150.000 persone.
Le Nazioni Unite hanno affermato che nel 2006, ultimo anno su cui sono disponibili dati, sono state uccise almeno 35.000 persone.
Il costante problema dell’insicurezza ha pregiudicato i tentativi di restaurare l’ordine, ma anche quando le autorità irachene sono state messe in grado di far rispettare i diritti umani, hanno ampiamente fallito. I processi sono regolarmente iniqui, con condanne emesse su prove estorte con la tortura. Centinaia di persone sono state condannate a morte".

Intanto Bush sostiene di aver vinto. Ci può spiegare che cosa?

sabato 22 marzo 2008

W il 25 aprile!

Il 25 aprile del 1945 il Comitato di Liberazione nazionale lanciava la parola d’ordine dell’insurrezione. Milano e le altre grandi città del Nord si liberavano dai tedeschi e dai nazisti mentre le truppe Alleate risalivano l’Italia.

Oggi il 25 aprile è la Festa della Liberazione: è una giornata per ricordarci che la libertà, il benessere, i diritti dei quali godiamo non sono qualcosa di scontato.

Uomini e donne di tutte le età,
di diverse idee politiche o fede religiosa, di diverse classi sociali, ma che avevano deciso di impegnarsi in prima persona per porre fine al fascismo e fondare in Italia una democrazia, basata sul rispetto dei diritti umani, della libertà individuale, senza distinzione di razza, di idee, di sesso e di religione, sono morti per garantirci ciò che oggi abbiamo e spetta a noi difendere queste conquiste tenendole vive nella coscienza e negli atti di ogni giorno.


Qualcuno si chiederà perché parlo del 25 aprile con così tanto anticipo.
Tranquilli il mio calendario non è sballato: è solo per lanciare l’ennesima iniziativa!

Dal blog delle Mondine.

Casa Cervi è un po’ anche la casa di tutti coloro che si riconoscono nei valori della resistenza, ed è lì che saliranno sul palco il coro delle Mondine di Novi, i Fiamma Fumana, Cisco e la Casa del Vento.

Franchino, il “papà del Fuori Orario ha avuto un’idea strampalata e meravigliosa: vorrebbe, quel pomeriggio d’aprile, 7000 persone che cantano insieme alle mondine. Perchè la musica è una cosa che fanno, o dovrebbero fare, tutti, e che ha, o dovrebbe avere, una dimensione in cui ci si ritrova in una storia e in una comunità.

La sfida è stata lanciata e noi siamo entusiasti di raccoglierla. Ci crediamo profondamente. Ma non ci basta far semplice “promozione”: di qui al 25 aprile potremmo navigare per tutto il web e fare una grande opera di divulgazione, e certo qualcuno pronto ad accogliere il nostro invito lo troveremmo, anche facilmente.

Sicuramente un po’ lo faremo anche! ma visto che consideriamo il 25 aprile la festa di tutti, visto che sul web siamo tutti protagonisti e visto che non ci interessa solo portare 7000 persone un pomeriggio a Campegine ma anche far passare a più gente possibile il messaggio che sta dietro questo pomeriggio, e cioè che esiste una comunità che ha voglia di cantare insieme alle mondine perchè si riconosce parte di una storia comune, non ci accontentiamo di portare al Museo Cervi 7000 persone che cantano.

Vogliamo lanciare una seconda sfida, questa volta esclusivamente alla rete: vorremmo riuscire, di qui al 25 aprile, a trovare 100 bloggers disposti a regalarci un piccolo spazio, anzi a regalare uno spazio a quelle 7000 persone che speriamo ci raggiungano per cantare insieme alle mondine. 7000 persone che cantano, 100 bloggers che lo raccontano.

Sul blog delle mondine troverete altre informazioni.

mercoledì 19 marzo 2008

Quando la democrazia fu sospesa

Il pm: «A Bolzaneto ci fu tortura»
Si è chiusa la requisitoria dei pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati al processo per le violenze a Bolzaneto.
Abuso d'ufficio, violenza privata, abuso di autorità contro detenuti o arrestati, falso, violazione dell'ordinamento penitenziario e convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: questi i reati contestati dai magistrati che hanno chiesto c
ondanne complessive per oltre 76 anni di reclusione per i 44 imputati nel processo per le violenze e i soprusi nella caserma della polizia di Bolzaneto, durante il G8 a Genova del luglio 2001. Per Giuseppe Fornasiere, ispettore di polizia penitenziaria responsabile dell'ufficio matricole, è stata chiesta l'assoluzione.
Durante la requisitoria i Pm avevano descritto la caserma di Bolzaneto come "un girone infernale" in cui furono inflitte alle persone fermate "almeno quattro" delle cinque tecniche di interrogatorio che, secondo la Corte europea sui diritti dell'uomo chiamata a pronunciarsi sulla repressione dei tumulti in Irlanda negli anni Settanta, configurano "trattamenti inumani e degradanti", in altre parole “tortura”.
Di seguito riporto un articolo tratto da La Repubblica del 17 marzo di cui vi consiglio la lettura.
Solo così, forse, chi non è stato presente a quei fatti potrà in minima parte rendersi conto di ciò che accaduto in quei tre giorni del luglio 2001 e di come in quei tre giorni in Italia la democrazia venne sospesa.
C'era anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo ricordano. "Giovanissimo". Più o meno ventenne, forse "di leva". Altri l'hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di "sospensione dei diritti umani", ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell'amministrazione penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai "prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di sedersi. Distribuiva la bottiglia dell'acqua, se ne aveva una a disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva.
Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo a Genova hanno documentato - contro i 45 imputati - che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.
Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista...). I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che "soltanto un criterio prudenziale" impedisce di parlare di tortura. Certo, "alla tortura si è andato molto vicini", ma l'accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.
Il reato di tortura in Italia non c'è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell'Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d'uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l'abuso di ufficio, l'abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell'indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).
Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa "degli altri", di quelli che pensiamo essere "peggio di noi". Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.
Nella prima Magna Carta - 1225 - c'era scritto: "Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese". Nella nostra Costituzione, 1947, all'articolo 13 si legge: "La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà"
La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un'accorta gestione, si sono voluti cancellare i "luoghi della vergogna", modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l'idea di farne un "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C'è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri" accompagnavano l'arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come "Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!", cori di "Benvenuti ad Auschwitz".
Dov'era il famigerato "ufficio matricole" c'è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come "Morte agli ebrei!", ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.
Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l'ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l'ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo).
A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: "Allora, non li vuoi vedere tanto presto...". A un'altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H. T. chiede l'avvocato. Minacciano di "tagliarle la gola". M. D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: "Vengo a trovarti, sai". Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti - gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra - e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni "per accertare la presenza di oggetti nelle cavità".
Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i "tempi di permanenza nella struttura". Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all'ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.
È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le "posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa". La "posizione del cigno" - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell'attesa di poter entrare "alla matricola". Superati gli scalini dell'atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della "posizione" peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella "posizione della ballerina", in punta di piedi.
Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato "entro stasera vi scoperemo tutte"; agli uomini, "sei un gay o un comunista?" Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: "viva il duce", "viva la polizia penitenziaria". C'è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un "trauma testicolare". C'è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A. D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella "posizione della ballerina". Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano "di rompergli anche l'altro piede". Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. "Comunista di merda". C'è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di "non picchiarlo sulla gamba buona". I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B. è in piedi.
Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: "Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?". S. D. lo percuotono "con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi". A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: "Troia, devi fare pompini a tutti", "Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte". S. P. viene condotto in un'altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e "a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania". J. S., lo ustionano con un accendino.
Ogni trasferimento ha la sua "posizione vessatoria di transito", con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C'è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.
In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l'altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: "I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone". Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni. P. B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: "E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci". Poi un'agente donna gli si avvicina e gli dice: "È carino però, me lo farei". Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell'unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all'accompagnatore. Che sono spesso più d'uno e ne approfittano per "divertirsi" un po'.
Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, "arrangiandosi così". A. K. ha una mascella rotta. L'accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto "se è incinta". Nel bagno, la insultano ("troia", "puttana"), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: "Che bel culo che hai", "Ti piace il manganello".
Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché "puzzano" dinanzi a medici che non muovono un'obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato "strattonato e spinto".
Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con "questo è pronto per la gabbia". Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di "trofei" con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini, "indumenti particolari". È il medico che deve curare L. K.
A L. K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un'iniezione. Chiede: "Che cos'è?". Il medico risponde: "Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!". G. A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All'arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c'è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due "fino all'osso". G. A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede "qualcosa". Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare.
Per i pubblici ministeri, "i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria".
Non c'è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell'estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un'osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l'indifferenza dell'opinione pubblica, l'apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto.
Possono davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato - che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la "dimensione dell'umano" di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre "con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l'etica, con l'identica allergia alla coerenza"?
E per tutto questo, la prescrizione è vicina, molto vicina...

domenica 16 marzo 2008

Bisogna abolire la legge 30


Da “Il manifesto” del 15 marzo 2008

Per Fausto Bertinotti l'obiettivo della Sinistra arcobaleno è eliminare la legge 30 sul lavoro.


"Aprendo la campagna elettorale al Teatro Smeraldo di Milano insieme a Fabio Mussi, il presidente della camera si è rivolto direttamente al segretario del Partito democratico: «Caro Veltroni, la realtà ha la testa dura, puoi evitarti di parlare di lotta di classe, prova a spiegarlo ai padroni. La lotta di classe si realizza da 25 anni e ad agirla è il padronato». Bertinotti poi si è detto disposto «a non parlare di lotta di classe per un anno, anche due, se verrà eliminata la legge 30, grande supermarket di precarietà». E ancora, rivolgendosi a Veltroni, «Devi dirmi da che parte stai, devi dire a chi togli e a chi dai. Noi vogliamo togliere alle rendite e al profitto».
Altrettanto esplicito in un forum on line con il corriere.it. «Il Pd vuole recuperare il ruolo che fu della Dc, un partito sostanzialmente interclassista ma senza la capacità che la Dc ebbe di sviluppare l'intervento pubblico. L'alleanza con il centro è nelle corde di Veltroni». Per questo per ora non è possibile un'intesa politica nazionale".

Intanto il decreto delegato relativo ai lavori usuranti rischia di scadere.
L'allarme è stato lanciato da Cesare Salvi (Sinistra Arcobaleno), che ha scritto una lettera al Presidente del Senato Franco Marini.
Se il decreto non fosse esaminato dal Consiglio dei Ministri della prossima settimana o se non fosse varato, oltre un milione di lavoratori in possesso dei requisiti, cioè quei lavoratori che in base al Protocollo del welfare potrebbero anticipare l'età di pensionamento in forza del fatto che lavorano in catena di montaggio, che sono esposti a lavorazioni rischiose o che hanno fatto turni notturni, potrebbe perdere il beneficio previsto.
A frenare il Governo sono motivi di bilancio accampati dal Tesoro, ma anche Confindustria.

Il Vicepresidente Bombassei, infatti, si è scagliato contro il decreto criticando il requisito delle 64 notti, ritenendolo troppo basso, e pronendo il limite minimo di 80 notti l'anno. In pratica per Confindustria nessun lavoro sarebbe usurante.
Il Ministro del Lavoro Damiano ha assicurato che «il governo è al lavoro per completare le ultime parti».

Ma la scadenza è terribilmente vicina e al momento non c’è nulla di sicuro
se non che la mancata approvazione sarebbe una cosa molto grave.

mercoledì 12 marzo 2008

Un sorriso lungo un anno


Parto da una frase dell’ultimo libro che ho letto:
"Io sono un clown e faccio collezione di attimi"
(Opinioni di un clown di Heinrich Boll)
E quale attimo è migliore di quello destinato ad un sorriso?
Per noi stessi e per gli altri.


Per noi:
Se quando siamo tristi e qualcuno ci ricorda che sorridere fa bene all’umore, dobbiamo credergli e mettere in pratica il suggerimento: ormai diversi studi avvalorano questa tesi.
Se qualcuno, però, ci dice che è meglio sorridere e pensare positivo altrimenti ci si ammala, siamo portati a considerarla una battuta e ci viene da sorridere davvero.
Invece, a dispetto di ogni prevedibile scetticismo, una recente ricerca dimostra che nell’istante in cui allarghiamo gli angoli delle labbra, le nostre difese immunitarie si rafforzano e così, magari, debelliamo il virus dell’influenza.
Come dicevano i nostri nonni: ridere fa buon sangue…
Per gli altri:
Hunter Patch Adams è un signore che esiste davvero e non solo sullo schermo cinematografico che l'ha reso famoso grazie all'interpretazione di Robin Williams. Oggi è un cinquantenne che va in giro per il mondo a fare visita ai bambini negli ospedali: è l’inventore della comicoterapia che ormai è praticata un po’ ovunque.
Ma quanti altri esempi si potrebbero fare per dimostrare il valore di un sorriso?
Per me quello più bello, impressionato nella lastra fotografica della mia memoria, è il sorriso colto sul viso dei miei figli quando per la prima volta lo hanno offerto al mondo che in quel momento ero io.
Questo post nasce dall'iniziativa di Comicomix “Un sorriso lungo un anno” nata per sostenere la lotta al neuroblastoma (un tumore dell'infanzia che rappresenta la prima causa di morte in età pediatrica) ed è rivolta a tutti i bloggers e in generale agli amici del web.
L’iniziativa è semplice. Chiunque lo desideri, nel corso del 2008 può fare un post dedicato al tema del sorriso, prendendo spunto da una vostra vicenda personale, un fatto di cronaca, di politica, di quello che volete.
Aderire è facile.
Basta scrivere il post, segnalarlo a questa mail comunicando il nome del blog e il link al post. Nel post basta semplicemente specificare che si aderisce a questa iniziativa, che vuole sostenere la lotta al neuroblastoma, il tumore dell'infanzia che rappresenta la prima causa di morte in età prescolare.Per ogni post segnalato, Comicomix donerà 2 euro alla Fondazione per la lotta al neuroblastoma

sabato 8 marzo 2008

Vale ancora l'8 marzo?

Probabilmente la scelta di questa data risale all’8 marzo 1848, giorno in cui le lavoratrici dell’industria dell’abbigliamento di New York proclamarono uno sciopero al quale parteciparono trentamila donne, la più grande manifestazione femminile che si fosse mai avuta negli Stati Uniti.
Sulla scelta della data ci sono state anche leggende dal sapore tragico, tra cui quella in cui a New York, le operaie dell'industria tessile Cotton scioperarono per protestare contro le condizioni in cui erano costrette a lavorare.

Lo sciopero durò alcuni giorni, fino a quando l'8 marzo il proprietario della fabbrica, Mr. Johnson, bloccò tutte le porte per impedire alle operaie di uscire. Venne poi appiccato il fuoco e le 129 operaie rinchiuse all'interno morirono divorate dalle fiamme.
Successivamente questa data venne proposta come giornata di lotta internazionale, a favore delle donne, da Rosa Luxemburg.
In Italia la festa ha origine l’8 marzo 1945, quando un gruppo di donne appartenenti all'Unione Donne Italiane si riunì a Roma per approvare un ordine del giorno mirato a: "...difendere il pane ai nostri figli, alle nostre famiglie e per difenderci dal freddo e dalla miseria..."
Parole che sembrano pronunciate secoli fa, mentre sono trascorsi solo sessant'anni.
La festa vera e propria fu organizzata l'anno seguente, dopo che a Londra si erano riunite le rappresentanti di venti nazioni per redigere la "Carta della donna" nella quale si chiedeva, fra l'altro: "...il diritto al lavoro in tutte le industrie, la parità salariale, la possibilità di accedere a posti direttivi e di partecipare alla vita politica nazionale e internazionale".
E fu proprio in quell'anno, il 2 giugno, che la donna italiana, per la prima volta, poté partecipare in prima persona al governo del Paese, contribuendo con il proprio voto alla nascita della Repubblica.

Oggi ha ancora senso festeggiare questa ricorrenza?
Nell’era del consumismo più sfrenato che tutto distorce, la giornata della donna ha un senso solo se viene riportata al suo significato originario.
Credo che il miglior modo di festeggiare le donne in questo momento sia quello di lottare per il mantenimento e l'allargamento dei diritti civili di tutti, dalla difesa della legge 194 alla fecondazione assistita, dal riconoscimento delle unioni di fatto al diritto all’eutanasia, alla pretesa di avere "
uno stato pienamente laico, che rispetta il credo religioso ma non se ne fa condizionare per quelle che sono leggi fondamentali del suo ordinamento".

Chi vuole, trova qui un'interessante articolo di Vladimir Luxuria

domenica 2 marzo 2008

Qualcosa di sinistra

Oggi vorrei segnalarvi un articolo di Fabrizio Rondolino pubblicato su "La Stampa" il 9 novembre scorso dal titolo "Rom: qualcosa di sinistra". Sebbene l'articolo abbia preso spunto da un fatto di cronaca (l'omicidio della signora Reggiani), credo che le riflessioni che suscita siano quanto mai attuali in questo periodo di campagna elettorale.

Questo il testo integrale.

La politica è fatta di scelte, ma vive di gesti simbolici. Veltroni, il leader della sinistra italiana, anziché suggerire o sollecitare o tollerare che l'inumana favela di Tor di Quinto fosse rasa al suolo, avrebbe dovuto visitarla.

Avrebbe dovuto parlare con chi ci abita, fermarcisi una notte, convocare le telecamere e dire agli italiani due cose: come leader del Partito democratico, spiegare che i non-italiani sono tanti e saranno sempre di più, e che è nostro preciso dovere garantire loro condizioni di vita dignitose; come sindaco di Roma, impegnarsi a trovare quanto prima un lavoro e una casa e una scuola per tutti i disgraziati abitanti della baraccopoli. Che senso ha andare in Africa se non ci si preoccupa delle migliaia di stranieri che vivono come bestie in decine di agglomerati fatiscenti - Forza Italia ne ha contati ottanta - sparsi per Roma? E che senso ha essere e dirsi «di sinistra» se non si condivide e non si pratica l'accoglienza, la tolleranza, l'apertura, la pietà?

Non traggano in inganno le parole, che potranno suonare retoriche: siamo talmente assuefatti al cinismo della sopravvivenza quotidiana e ai suoi automatismi, da non conoscere più neppure il lessico della convivenza civile. La questione dei non-italiani è esemplare per molti motivi: ma soprattutto perché è un esempio di come le soluzioni moralmente più ripugnanti - figlie dell'ondata xenofoba di cui siamo vittime e artefici - siano anche le più stupide e inefficaci. In altre parole, la questione dei non-italiani dimostra che etica e politica sono due aspetti di un medesimo progetto - la convivenza umana -, e che senza un'etica robusta e condivisa la politica, semplicemente, sbaglia.

Sia chiaro: nessuno, quando si parla di «tolleranza», intende quella caricatura che ne fa la destra. È ovvio che le leggi vanno rispettate, che la sicurezza va garantita perché è il fondamento della libertà, e che chi sbaglia deve pagare. Né il rispetto delle leggi è una concessione, o un privilegio, o un «giro di vite»: è, semplicemente, un dovere di tutti, degli italiani e dei non-italiani. Le leggi, a loro volta, non devono contraddire la lettera e lo spirito della Costituzione, e devono essere uguali per tutti. Sono questi i principi dello Stato liberale di diritto, e poiché tutti dicono di condividerli, non resta che applicarli con scrupolo e coscienza.
Ma il punto non è questo. Forse sarebbe bastato qualche lampione in più per salvare la vita di Giovanna Reggiani; forse il decreto del governo - che venga votato o no dalla sinistra radicale, che venga bocciato o no dalla destra - non impedirà a un altro assassino di alzare la sua mano omicida. È talmente evidente che il punto è un altro, che fa persino rabbia l'incoscienza con cui i politici si rimpallano le responsabilità, per di più misurando queste «responsabilità» sul numero di espulsioni o di internamenti o di arresti e mai, nemmeno per sbaglio, sulla qualità della convivenza, del rispetto, della dignità reciproca.
Proviamo invece a ragionare sulla realtà. Nel 2000, secondo uno studio condotto dal World Institute for Development Economics Research delle Nazioni Unite, l'l% degli adulti più ricchi del pianeta possedeva da solo il 40% della ricchezza mondiale, e il 10% ne deteneva l'85%; al 50% più povero della popolazione adulta toccava invece l'1% della ricchezza globale. Sono dati ampiamente noti, ed è improbabile che in questi sette anni la situazione sia migliorata. Dunque è questo il nostro mondo, il mondo che abbiamo costruito, il mondo in cui viviamo. Che quella metà del mondo che possiede, tutta insieme, soltanto l'l% delle ricchezze, provi in qualche modo a spostarsi verso quell'area, abitata dal 10% della popolazione, dove si trova l'85% della ricchezza, è del tutto normale. Sarebbe strano che non accadesse. È una specie di legge dei vasi comunicanti. Non abbiamo forse fatto così, noi italiani, partendo per l'America, per l'Australia, per il Belgio, per la Svizzera, per la Germania?

E se io desidero mandare mia figlia a studiare negli Stati Uniti perché abbia una formazione migliore, perché mai un ragazzo maghrebino o romeno o senegalese dell'età di mia figlia non dovrebbe desiderare di venire in Italia per provare ad avere una vita migliore?

Il pietismo ipocrita con cui mascheriamo la durezza del nostro cuore ci fa parlare di «disperati»: ma chi varca il mare o attraversa il deserto per cominciare una nuova vita è al contrario una persona piena di speranze, proprio come lo saremmo noi se potessimo salpare per un mondo migliore. Tutti coloro che tentano in ogni modo di venire da noi, dunque., hanno il diritto soggettivo di farlo perché coltivano una Speranza; e proprio perché coltivano una speranza sono persone ricolme di dignità. Che risposta diamo a queste donne e a questi uomini? La politica (e la sinistra) è prodiga di soluzioni per i criminali, ma non sa dire una parola alle persone perbene, che sono, come in ogni gruppo umano, la grande maggioranza.
La nostra ipocrisia non conosce limiti. Multiamo i lavavetri ma non muoviamo un dito per stroncare il traffico indegno di ragazze dell'Est o dell'Africa che vengono quotidianamente deportate, stuprate, percosse e uccise esclusivamente per il nostro piacere, consumato a buon prezzo lungo i viali mentre a casa ci aspetta una famiglia affettuosa. Radiamo al suolo in diretta tv le capanne di lamiera e stracci che hanno ospitato un presunto assassino, e non ci poniamo nemmeno il problema di come hanno vissuto finora i «vicini di casa» dello sciagurato Nicolae Romolus Mailat, e di come vivranno adesso.
Coltiviamo a tal punto la paura, da scordarci di avere a che fare con altri esseri umani. E un errore concettuale pensare che esistano ancora le frontiere, i confini, gli Stati. Il mondo somiglia a un gigantesco Sud Africa: è cioè una comunità profondamente divisa (un'esigua minoranza bianca e ricca, una stragrande maggioranza «colorata» e povera), e tuttavia costretta a convivere. Giusto o sbagliato, è così. Possiamo imboccare la strada dell'apartheid, per esempio sgomberando le baraccopoli, procedendo a espulsioni di massa, internando chi non è in regola, modificando le leggi, pattugliando le coste, affondando le barche che violano le nostre acque territoriali. Poiché il flusso migratorio non può fermarsi, e dunque non si fermerà, è probabile però che la strada dell'apartheid porti a una progressiva militarizzazione della nostra vita quotidiana, senza che la nostra sicurezza ne risulti accresciuta. Oppure, possiamo aprire gli occhi alla realtà e, per esempio, scoprire che gli ideali antichi e le parole dimenticate della sinistra non soltanto hanno un senso, ma addirittura indicano la soluzione oggi più ragionevole, perché più pratica e più efficace.

È questo che si vorrebbe da Walter Veltroni: che il capo della sinistra attinga alla grande tradizione di cui è oggi il custode e l'interprete più autorevole per indicare l'unica soluzione compatibile: l'accoglienza, la tolleranza, l'integrazione. Il «buonismo» non c'entra niente, checché ne dica Casini rimproverando quei cattolici che ancora sono capaci di dare un senso concreto alla propria fede: c'entra invece, e molto, l'idea che si possa convivere in pace anziché in guerra. Una terza possibilità non esiste. Agli stranieri che vengono in Italia dobbiamo dare, nei limiti delle nostre possibilità, che peraltro sono molto ampie, un lavoro, una casa, una scuola: dobbiamo dar loro una prospettiva. È giusto, ed è utile. Non è detto che questa strada porti al successo. Nel governare una società complessa, del resto, spesso limitare il danno è già un grande risultato. Nessuno predica la pace universale: sarebbe bella, ma sappiamo che non è possibile. È possibile invece sbagliare, e anzi accade sovente. Ed è anche possibile provare a fare le cose in modo più serio, più giusto, più utile, partendo dalla dignità di ogni singolo essere umano e impegnandosi perché questa dignità dia i suoi frutti.

Se la sinistra non fa questo, oggi, subito, a che serve la sinistra?


P.S.

Grazie a "Dicolamia" e a "Cittaddino qualunque" che mi hanno voluto nominare per questo premio.

Inutile dire che le loro motivazioni mi hanno fatto un grande piacere.



Anche stavolta però non proseguo la catena, estendendo il premio a tutti gli amici con cui quotidianamente mi confronto ritenendoli tutti ugualmente "degni" di meritare questo riconoscimento.