Non riesco a gioire della condivisione del 25 Aprile in quest’anno 2009, con un presidente del Consiglio che getta all’amato popolo (in primis quello della martoriata terra d’Abruzzo, divenuto il suo palcoscenico principale) la ciambella della sua partecipazione per la prima volta a una cerimonia di commemorazione della sconfitta dal nazifascismo, e della vittoria della Resistenza. Non riesco a compiacermi delle dichiarazioni fasulle o stonate dei Maroni e dei La Russa, e neppure di quelle più serie del solito Fini. Non riesco ad accettare l’idea di una Resistenza “condivisa”, pur apprezzando le parole di Napolitano che ricorda il contributo determinante, e non già folclorico, come ci vorrebbero far credere i Pansa di oggi, sulla scia dei Pisanò d’un tempo, del movimento partigiano alla liberazione del Paese, al suo riscatto morale, alla sua indipendenza nazionale. E voglio ribadire che non solo non si può pretendere che, neppure a oltre 60 anni di distanza, la memoria dei carnefici sia “condivisa” dalle vittime (e viceversa), ma che sarebbe sbagliato sul piano storico. La condivisione passa non attraverso la memoria, bensì la storia. E la storia è racconto di fatti realmente accaduti, e susseguente riflessione sui loro perché, sui loro fini, sulle motivazioni degli attori, sui contesti e così via.
La storia del biennio 1943-1945 ci dice che ci sono state ragioni giuste e ragioni sbagliate, e che confondere la moralità degli individui che combattevano – gli uni contro gli altri – con la moralità delle cause che li spingevano a combattere, è sbagliato e fuorviante. Ci sono stati i “ragazzi di Salò”, che, in buona fede, in nome di una malintesa fedeltà al capo, al venerato Duce, ritenuto invincibile guerriero e padre protettore della famiglia italiana, hanno servito a Salò; i migliori tra loro – tra i quali alcuni nomi oggi sono assai noti: da Dario Fo a Giorgio Bocca – compresero ben presto da quale parte stesse la verità e la giustizia, e passarono alla Resistenza. O comunque disertarono dall’esercito di Salò, in cui, peraltro, si era reclutati a viva forza, se non si trovavano scappatoie. Il movimento partigiano fu spontaneo, e popolare, anche se frutto di minoranze: ma quelle minoranze non avrebbero potuto operare senza il consenso, attivo o passivo, di stragrandi maggioranze di popolazione. Come i manuali di guerriglia insegnano, il guerrigliero è il pesce, la popolazione civile è l’acqua in cui esso si muove.
“Se avessero vinto loro…?”, - così replicò Norberto Bobbio a Renzo De Felice e a un manipolo di fedeli dello storico revisionista, che mettevano in questione il valore della Resistenza, pronti ad assegnare agli uni e agli altri una patente di patriottismo. Se avessero vinto loro: ecco la questione da cui partire, e con la quale dobbiamo dirimere il melenso chiacchiericcio, anche quando assume toni esacerbati, sulle celebrazioni del 25 Aprile. Se avessero vinto loro, invece che i partigiani… Questo dobbiamo scolpire a lettere indelebili nella nostra mente e nel nostro cuore: come sarebbe andata se avessero vinto i nazifascisti. Oggi, da troppe parti – compresa l’Unione Europea – si pretende di porre sullo stesso piano fascismo/nazismo da una parte, comunismo dall’altra, accomunati in una condanna generica quanto generale. Ebbene, il 25 Aprile ci dice che sono stati innanzi tutto i comunisti – gli italiani nella lotta partigiana, ma anche di altri Paesi, a cominciare dai Russi (che hanno pagato il prezzo più altro alla macchina da guerra hitleriana) –, a lottare contro il nazifascismo. E, aggiungo, in Italia, furono i comunisti del vituperato Togliatti a dare un contributo decisivo alla costruzione della Repubblica democratica, dalla Costituente in poi. Negare questa verità acclarata dai documenti significa fare del volgarissimo “rovescismo”. Come continuare a parlare di “guerra civile” per riferirsi al biennio ’43-45 significa dire un pezzo di verità, non certo tutta. E un pezzo di verità è una menzogna. Giacché, come ci ha insegnato tutta la migliore storiografia – Claudio Pavone per tutti – in quei mesi dal settembre ’43 all’aprile ’45 coesistettero tre guerre: una guerra di liberazione nazionale (italiani contro tedeschi), una guerra sociale (classi subalterne contro i ceti privilegiati, favoriti dal regime mussoliniano: il famoso “vento del Nord”, ossia la speranza di un radicale cambiamento sociale), e, infine, una guerra civile (ossia italiani, antifascisti, contro italiani, fascisti).
Dunque, la guerra civile fu soltanto una dimensione di quel conflitto drammatico, e insistere su di essa, significa mentire, oltre che banalizzare. O se proprio si vuole tollerare quell’etichetta di guerra civile la si intenda come faceva Franco Antonicelli, indimenticato presidente del CLN Piemontese, il quale commemorando il 25 Aprile, nel suo primo anniversario, il 1946, ebbe a dire che si era trattato di una guerra “che, oltre ad essere militare e anzi prima che fosse militare, fu civile, e cioè moto di cittadini, d’ogni classe sociale, d’ogni età e di entrambi i sessi”. Sì, davvero: se l’Otto Settembre è stato tutt’altro che “la morte della patria”, la sua riscoperta in senso democratico, dal basso; il 25 Aprile è stato il punto conclusivo di quel processo cominciato dall’Armistizio e dal primo formarsi delle bande partigiane. Ancora Antonicelli, l’anno dopo, il 25 aprile 1947, denunciava nel discorso ufficiale l’esistenza di “un’altra Italia”, quella che aveva lucrato col fascismo e che “non ama queste memorie e si affatica solo nel tentativo di distruggerle con la calunnia”.
Ebbene, noi, non solo dobbiamo insistere sulla gratitudine a quanti allora fecero la scelta più dura, e si sacrificarono per il bene comune; oggi, noi dobbiamo, in senso più generale, vedere nel 25 Aprile un invito a lottare contro quel “peso morto della storia” che, per dirla con il giovane Antonio Gramsci, è l’indifferenza. In un articolo folgorante del febbraio 1917, Indifferenti, egli lanciava un grido di sfida: “Odio gli indifferenti. Credo … che vivere vuol dire essere partigiani”. E chi più di coloro che – da operai, insegnanti, ferrovieri, postelegrafonici, tipografi, casalinghe, impiegati… – si trasformarono nella diffusa armata della Liberazione d’Italia, sono stati “partigiani” in questo senso? A loro dunque, con o senza il beneplacito del politico al potere, dobbiamo non soltanto rendere onore; dobbiamo soprattutto prenderli ad esempio. Ed essere pronti ad essere partigiani – nel significato che ciascuna epoca e situazione potrà determinare –, per combattere contro quel peso morto della storia che è l’indifferenza.
Angelo d'Orsi su MicroMega del 25 aprile 2009
La storia del biennio 1943-1945 ci dice che ci sono state ragioni giuste e ragioni sbagliate, e che confondere la moralità degli individui che combattevano – gli uni contro gli altri – con la moralità delle cause che li spingevano a combattere, è sbagliato e fuorviante. Ci sono stati i “ragazzi di Salò”, che, in buona fede, in nome di una malintesa fedeltà al capo, al venerato Duce, ritenuto invincibile guerriero e padre protettore della famiglia italiana, hanno servito a Salò; i migliori tra loro – tra i quali alcuni nomi oggi sono assai noti: da Dario Fo a Giorgio Bocca – compresero ben presto da quale parte stesse la verità e la giustizia, e passarono alla Resistenza. O comunque disertarono dall’esercito di Salò, in cui, peraltro, si era reclutati a viva forza, se non si trovavano scappatoie. Il movimento partigiano fu spontaneo, e popolare, anche se frutto di minoranze: ma quelle minoranze non avrebbero potuto operare senza il consenso, attivo o passivo, di stragrandi maggioranze di popolazione. Come i manuali di guerriglia insegnano, il guerrigliero è il pesce, la popolazione civile è l’acqua in cui esso si muove.
“Se avessero vinto loro…?”, - così replicò Norberto Bobbio a Renzo De Felice e a un manipolo di fedeli dello storico revisionista, che mettevano in questione il valore della Resistenza, pronti ad assegnare agli uni e agli altri una patente di patriottismo. Se avessero vinto loro: ecco la questione da cui partire, e con la quale dobbiamo dirimere il melenso chiacchiericcio, anche quando assume toni esacerbati, sulle celebrazioni del 25 Aprile. Se avessero vinto loro, invece che i partigiani… Questo dobbiamo scolpire a lettere indelebili nella nostra mente e nel nostro cuore: come sarebbe andata se avessero vinto i nazifascisti. Oggi, da troppe parti – compresa l’Unione Europea – si pretende di porre sullo stesso piano fascismo/nazismo da una parte, comunismo dall’altra, accomunati in una condanna generica quanto generale. Ebbene, il 25 Aprile ci dice che sono stati innanzi tutto i comunisti – gli italiani nella lotta partigiana, ma anche di altri Paesi, a cominciare dai Russi (che hanno pagato il prezzo più altro alla macchina da guerra hitleriana) –, a lottare contro il nazifascismo. E, aggiungo, in Italia, furono i comunisti del vituperato Togliatti a dare un contributo decisivo alla costruzione della Repubblica democratica, dalla Costituente in poi. Negare questa verità acclarata dai documenti significa fare del volgarissimo “rovescismo”. Come continuare a parlare di “guerra civile” per riferirsi al biennio ’43-45 significa dire un pezzo di verità, non certo tutta. E un pezzo di verità è una menzogna. Giacché, come ci ha insegnato tutta la migliore storiografia – Claudio Pavone per tutti – in quei mesi dal settembre ’43 all’aprile ’45 coesistettero tre guerre: una guerra di liberazione nazionale (italiani contro tedeschi), una guerra sociale (classi subalterne contro i ceti privilegiati, favoriti dal regime mussoliniano: il famoso “vento del Nord”, ossia la speranza di un radicale cambiamento sociale), e, infine, una guerra civile (ossia italiani, antifascisti, contro italiani, fascisti).
Dunque, la guerra civile fu soltanto una dimensione di quel conflitto drammatico, e insistere su di essa, significa mentire, oltre che banalizzare. O se proprio si vuole tollerare quell’etichetta di guerra civile la si intenda come faceva Franco Antonicelli, indimenticato presidente del CLN Piemontese, il quale commemorando il 25 Aprile, nel suo primo anniversario, il 1946, ebbe a dire che si era trattato di una guerra “che, oltre ad essere militare e anzi prima che fosse militare, fu civile, e cioè moto di cittadini, d’ogni classe sociale, d’ogni età e di entrambi i sessi”. Sì, davvero: se l’Otto Settembre è stato tutt’altro che “la morte della patria”, la sua riscoperta in senso democratico, dal basso; il 25 Aprile è stato il punto conclusivo di quel processo cominciato dall’Armistizio e dal primo formarsi delle bande partigiane. Ancora Antonicelli, l’anno dopo, il 25 aprile 1947, denunciava nel discorso ufficiale l’esistenza di “un’altra Italia”, quella che aveva lucrato col fascismo e che “non ama queste memorie e si affatica solo nel tentativo di distruggerle con la calunnia”.
Ebbene, noi, non solo dobbiamo insistere sulla gratitudine a quanti allora fecero la scelta più dura, e si sacrificarono per il bene comune; oggi, noi dobbiamo, in senso più generale, vedere nel 25 Aprile un invito a lottare contro quel “peso morto della storia” che, per dirla con il giovane Antonio Gramsci, è l’indifferenza. In un articolo folgorante del febbraio 1917, Indifferenti, egli lanciava un grido di sfida: “Odio gli indifferenti. Credo … che vivere vuol dire essere partigiani”. E chi più di coloro che – da operai, insegnanti, ferrovieri, postelegrafonici, tipografi, casalinghe, impiegati… – si trasformarono nella diffusa armata della Liberazione d’Italia, sono stati “partigiani” in questo senso? A loro dunque, con o senza il beneplacito del politico al potere, dobbiamo non soltanto rendere onore; dobbiamo soprattutto prenderli ad esempio. Ed essere pronti ad essere partigiani – nel significato che ciascuna epoca e situazione potrà determinare –, per combattere contro quel peso morto della storia che è l’indifferenza.
Angelo d'Orsi su MicroMega del 25 aprile 2009
13 commenti:
I valori della resistenza sono la base della nostra democrazia, chi non si riconosce totalmente in essi ed accenna a un qualche giustificazionismo di chi era dalla parte sbagliata non può celebrare la nostra Liberazione.
Pietà per tutti i morti ma onore solo ai partigiani!
Buon 1° maggio!
No, da Franti quale sono, non riesco a gioire davvero per questa presunta "condivisione".
E' l'indifferenza il nemico peggiore.
Ci svegliamo per due minuti, alziamo la testa, ed è tutto lì il nostro essere partigiani, oggi.
E'per questo che bisogna festeggiare il 25 aprile tutto l'anno, perchè il paese è oggi più che mai da "liberare"!
Sulle fondamenta dell'indifferenza si possono costruire castelli di regime
Se avessero vinto loro non avremmo nemmeno i blog !
Hai fatto bene a riportare questo essenziale articolo, grazie.
Ci vorrebbe un secondo 25 aprile, non per celebrare la memoria del prima ma per liberare l'italia di nuovo!
Questo si che è un bell'articolo.
Un abbraccio Franca, immagino che avrai tanto da fare visto la tua candidatura!
Bel post. COncordo con la tua analisi.
Quoto vale.
Saluto franca.
C'è un premier per ogni occasione, nel caso dell'influenza suina sono stati anche precorsi i tempi... ehm
Sai com'è, "papi" si appropria di tutto, anche della Resistenza.
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