Il ducetto della Fiat non aveva ancora finito di enunciare tutte le clausole del ricatto (o gli operai accettano turni di 11 ore rinunciando alle pause intermedie e allo sciopero, o la Fiat sbaracca e lascia l’Italia) che Piero Fassino già diceva – non richiesto – la sua: «Se fossi un operaio di Mirafiori, voterei sì». Nessuna sorpresa. Meno scontata è apparsa a qualcuno la presa di posizione di Massimo D’Alema, dichiaratosi anch’egli favorevole al cosiddetto accordo su Pomigliano, e in frontale dissenso dalla lotta della Fiom. Ma è così? C’è davvero di che meravigliarsi? O si tratta invece di una logica conseguenza della linea del Partito democratico, a sua volta coerente con la paradossale funzione politica svolta in questi quindici anni dal gruppo dirigente post-comunista del Pd?
Qualche anno fa Nanni Moretti se ne uscì con una battuta al vetriolo. Con questi dirigenti, disse, non vinceremo mai. E proprio a D’Alema rivolse l’esortazione a «dire qualcosa di sinistra». Oggi possiamo essere più cattivi senza essere meno obiettivi. Se D’Alema e i suoi colleghi non ci fossero, il padronato italiano e il suo massimo garante politico dovrebbero inventarli. Da quando “scese in campo” inaugurando la stagione politica più nera della Repubblica, Berlusconi non ha trovato in loro soltanto oppositori mancati, ma anche operosi mallevadori del proprio durevole successo. Non possiamo ricordare tutti gli episodi interessanti, limitiamoci ai più rappresentativi. Primo fra tutti il discorso del 28 febbraio 2002 alla Camera in cui Violante ricorda, a vanto del proprio partito, l’impegno a “non toccare le televisioni” di Berlusconi assunto nel 1994, la mancata promulgazione di una legge sul conflitto di interessi nel corso della precedente legislatura (quando il centrosinistra governava), il via libera alla eleggibilità di Berlusconi, titolare di importanti concessioni amministrative, e persino l’aumento (di ben 25 volte) del fatturato di Mediaset. Quel discorso è un monumento di lungimiranza e di sagacia politica. Dovrebbe figurare in tutti i libri di storia. Un altro passaggio indimenticabile, per restare sul terreno strettamente politico, è il Veltrusconi. Siamo alla fine del 2007, Prodi governa da due anni scarsi, la maggioranza è fragile per il risicato margine di voti al Senato e per la litigiosità dell’Unione. Ma la nave va e Berlusconi è in gravissima difficoltà nel centrodestra. Veltroni, appena eletto segretario del Pd, non trova di meglio che intavolare col padrone del neonato Pdl una (finta) trattativa sulla legge elettorale, accordandosi con lui per andare a elezioni anticipate (non lo insinuiamo noi, lo ha detto Prodi). Il risultato è il disastro in cui ci dibattiamo: una drammatica crisi generale (politica, sociale e morale) nella quale peraltro il Pd non gioca alcun ruolo attivo, se è vero che l’unico serio pericolo corso dal governo in questi due anni a mezzo lo si deve alla secessione di Fini dal Pdl. Intelligenza col nemico? Semplice insipienza? Per capire bisogna guardare ai risultati delle scelte politiche che hanno fatto dell’Italia il Paese più ineguale d’Europa e il più ostile nei confronti del lavoro dipendente. Si scopre allora che tra centrodestra e centrosinistra vi è una forte sintonia sulla politica economica (le privatizzazioni, la precarizzazione del lavoro, i bassi salari), sul terreno istituzionale (il maggioritario e il “federalismo”, il presidenzialismo negli Enti locali e la controriforma dell’Università), in politica estera (la partecipazione alle guerre “democratiche”). Non c’è bisogno di ipotizzare complotti: è che la cosiddetta “sinistra moderata” non ha un programma politico granché diverso da quello della contropar te. La si può pensare in tanti modi in proposito, ma certo la convergenza di intenti tra i due poli è fonte di grossi guai per il centrosinistra. La sua base elettorale è frastornata e disorientata. Ha le idee sempre meno chiare su dove la si vorrebbe condurre (per cui sempre più spesso cede alle sirene dell’astensionismo). Il Pci aveva tanti limiti, ma evocava la trasformazione del modello sociale. Non soltanto una politica non collusa con la mafia e il neofascismo, anche una società giusta, rispettosa della dignità e dei diritti del lavoro. Oggi quale immagine di società si collega al Pd, dove don Camillo convive con un Peppone diventato chierichetto?
Mentre la destra attacca e sfonda sui fondamentali, l’opposizione balbetta sulle buone maniere. E nei fatti acconsente. Allora è venuto il tempo di diventare adulti, la ricreazione è finita. D’Alema non dirà qualcosa di sinistra semplicemente perché ha cambiato idea, come dimostra da ultimo la posizione assunta su Pomigliano (e lasciamo perdere, per carità di patria, le rivelazioni di WikiLeaks sulla magistratura che minaccia lo Stato democratico). Bisogna finalmente prendere atto che la sinistra è altrove e va ricostruita conquistando credito presso tanta gente che in questi anni ha subito le scelte del gruppo dirigente democratico nell’illusione di rimanere coerente con la propria storia. L’Italia non è di per sé un “Paese di destra”. Questo è un alibi, ed è la conseguenza di una opposizione “omeopatica” che non contende alla destra un palmo della sua egemonia. La battaglia va ripresa. Non soltanto per la sinistra, ma per il Paese. Per la democrazia italiana.
Qualche anno fa Nanni Moretti se ne uscì con una battuta al vetriolo. Con questi dirigenti, disse, non vinceremo mai. E proprio a D’Alema rivolse l’esortazione a «dire qualcosa di sinistra». Oggi possiamo essere più cattivi senza essere meno obiettivi. Se D’Alema e i suoi colleghi non ci fossero, il padronato italiano e il suo massimo garante politico dovrebbero inventarli. Da quando “scese in campo” inaugurando la stagione politica più nera della Repubblica, Berlusconi non ha trovato in loro soltanto oppositori mancati, ma anche operosi mallevadori del proprio durevole successo. Non possiamo ricordare tutti gli episodi interessanti, limitiamoci ai più rappresentativi. Primo fra tutti il discorso del 28 febbraio 2002 alla Camera in cui Violante ricorda, a vanto del proprio partito, l’impegno a “non toccare le televisioni” di Berlusconi assunto nel 1994, la mancata promulgazione di una legge sul conflitto di interessi nel corso della precedente legislatura (quando il centrosinistra governava), il via libera alla eleggibilità di Berlusconi, titolare di importanti concessioni amministrative, e persino l’aumento (di ben 25 volte) del fatturato di Mediaset. Quel discorso è un monumento di lungimiranza e di sagacia politica. Dovrebbe figurare in tutti i libri di storia. Un altro passaggio indimenticabile, per restare sul terreno strettamente politico, è il Veltrusconi. Siamo alla fine del 2007, Prodi governa da due anni scarsi, la maggioranza è fragile per il risicato margine di voti al Senato e per la litigiosità dell’Unione. Ma la nave va e Berlusconi è in gravissima difficoltà nel centrodestra. Veltroni, appena eletto segretario del Pd, non trova di meglio che intavolare col padrone del neonato Pdl una (finta) trattativa sulla legge elettorale, accordandosi con lui per andare a elezioni anticipate (non lo insinuiamo noi, lo ha detto Prodi). Il risultato è il disastro in cui ci dibattiamo: una drammatica crisi generale (politica, sociale e morale) nella quale peraltro il Pd non gioca alcun ruolo attivo, se è vero che l’unico serio pericolo corso dal governo in questi due anni a mezzo lo si deve alla secessione di Fini dal Pdl. Intelligenza col nemico? Semplice insipienza? Per capire bisogna guardare ai risultati delle scelte politiche che hanno fatto dell’Italia il Paese più ineguale d’Europa e il più ostile nei confronti del lavoro dipendente. Si scopre allora che tra centrodestra e centrosinistra vi è una forte sintonia sulla politica economica (le privatizzazioni, la precarizzazione del lavoro, i bassi salari), sul terreno istituzionale (il maggioritario e il “federalismo”, il presidenzialismo negli Enti locali e la controriforma dell’Università), in politica estera (la partecipazione alle guerre “democratiche”). Non c’è bisogno di ipotizzare complotti: è che la cosiddetta “sinistra moderata” non ha un programma politico granché diverso da quello della contropar te. La si può pensare in tanti modi in proposito, ma certo la convergenza di intenti tra i due poli è fonte di grossi guai per il centrosinistra. La sua base elettorale è frastornata e disorientata. Ha le idee sempre meno chiare su dove la si vorrebbe condurre (per cui sempre più spesso cede alle sirene dell’astensionismo). Il Pci aveva tanti limiti, ma evocava la trasformazione del modello sociale. Non soltanto una politica non collusa con la mafia e il neofascismo, anche una società giusta, rispettosa della dignità e dei diritti del lavoro. Oggi quale immagine di società si collega al Pd, dove don Camillo convive con un Peppone diventato chierichetto?
Mentre la destra attacca e sfonda sui fondamentali, l’opposizione balbetta sulle buone maniere. E nei fatti acconsente. Allora è venuto il tempo di diventare adulti, la ricreazione è finita. D’Alema non dirà qualcosa di sinistra semplicemente perché ha cambiato idea, come dimostra da ultimo la posizione assunta su Pomigliano (e lasciamo perdere, per carità di patria, le rivelazioni di WikiLeaks sulla magistratura che minaccia lo Stato democratico). Bisogna finalmente prendere atto che la sinistra è altrove e va ricostruita conquistando credito presso tanta gente che in questi anni ha subito le scelte del gruppo dirigente democratico nell’illusione di rimanere coerente con la propria storia. L’Italia non è di per sé un “Paese di destra”. Questo è un alibi, ed è la conseguenza di una opposizione “omeopatica” che non contende alla destra un palmo della sua egemonia. La battaglia va ripresa. Non soltanto per la sinistra, ma per il Paese. Per la democrazia italiana.
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